di Giuseppe Tomassetti
Il vicepresidente FIRE dedica l’editoriale di Gestione Energia 1/2018 ai biocombustibili, partendo dagli anni 70, periodo in cui iniziò a svilupparsi l’attenzione verso le fonti rinnovabili di energia, fino ad oggi.
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Quella dei biocombustibili è la pagina meno positiva dello sviluppo delle fonti rinnovabili nella UE.
Quando negli anni 70 del secolo scorso iniziò a svilupparsi l’attenzione verso le fonti rinnovabili di energia e vennero avviati gli impegni per favorirne lo sviluppo, i combustibili di origine biologica potevano mostrare prestazioni tecnologiche ed esperienze applicative avanzate e diffuse, basti ricordare lo sviluppo delle coltivazioni di canna da zucchero per la produzione di metanolo(alcool) in Brasile, rispetto ad altre potenziali fonti energetiche rinnovabili quali l’eolico ed il solare.
Non meraviglia quindi che, quando all’inizio degli anni 2000 si fissarono gli obiettivi settoriali da raggiungere per il 2020, fu stabilita una percentuale minima di biocombustibili pari al 10% dei consumi di energia nei trasporti, nonostante fosse una opinione comune degli addetti al settore che in Europa, a maggior ragione in Italia, non esistessero le condizioni necessarie, quali le grandi superfici da deforestare del Brasile o le enormi eccedenze produttive di mais degli USA.
Indubbiamente la politica sperava che, promuovendo la domanda, le imprese e la ricerca avrebbero fatto miracoli. Purtroppo sia l’agricoltura sia le bio tecnologie non si prestano facilmente ai salti. I due progetti più evoluti: l’impianto pilota in Germania, realizzato sulla scia di quelli usati durante la guerra, per la produzione pirolitica di sin-gas da biomassa e successiva sintesi di idrocarburi, e l’impianto italiano per alcool dall’attacco enzimatico della cellulosa delle canne, hanno mostrato costi e difficoltà fuori da ogni mercato. La realtà è stata l’aumento di importazioni di olio, sia di palma che di colza, da aree di recente deforestazione, per produrre biodiesel. Nell’ultimo decennio la UE ha preso atto della situazione, ha ridotto gli obiettivi ed ha introdotto regole, ILUC (indirect land use change), per limitare la concorrenza delle colture energetiche a quelle alimentari.
Un settore delle biomasse che invece ha avuto sviluppi positivi è quello del biogas (miscela di CO2e metano) prodotto dalla fermentazione anaerobica, sia nelle discariche sigillate dei rifiuti urbani, sia in appositi digestori alimentati dagli scarichi degli allevamenti animali e dai surplus agricoli. Il biogas, dopo semplice depurazione è bruciato in motori a ciclo Otto; l’elettricità generata in Italia, 8,1 TWh nel 2016, è acquistata dalla rete a prezzi incentivati, contribuendo al reddito dell’agricoltura ed ai costi del ciclo dei rifiuti.
E’ ormai evidente che la produzione di elettricità rinnovabile vede maggiori prospettive nelle tecnologie fotovoltaiche ed eoliche per cui è opportuno prevedere utilizzi più efficaci per il biogas; il biogas può essere sottoposto a un trattamento più spinto ottenendo biometano da immettere sul mercato del gas, anche attraverso la rete. Questo metano rinnovabile può essere contabilizzato come parte dei consumi di gas per uso trasporto, contribuendo così alla quota obbligata di rinnovabile nel settore. Dopo due anni di attesa è oggi operante un decreto di incentivazione, con diverse soluzioni, dei primi 1,1 miliardi di m3 /anno di biometano mentre le stime di potenzialità arrivano ad 8 miliardi. Un’applicazione di molto interesse è la fermentazione della FORSU (frazione organica dei rifiuti solidi urbani), in alternativa della produzione di compost di cui è difficile garantire la qualità e quindi il mercato.